SECONDA EDIZIONE FESTA DI TUTTI I SANTI E COMM.DEI DEFUNTI GIORNALINO ARTIGIANALE DEL SITO www.mikivettica.net DI MICHELE PAPPACODA
FESTA DI TUTTI I SANTI E COMM.DEI DEFUNTI GIORNALINO ARTIGIANALE DEL SITO www.mikivettica.net DI MICHELE PAPPACODA
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Storia di Santa Rita
Rita nacque presumibilmente nell'anno 1381 a Roccaporena, un villaggio situato nel comune di Cascia in provincia di Perugia, da Antonio Lotti e Amata Ferri. I suoi genitori erano molto credenti e la situazione economica non era agiata ma decorosa e tranquilla.
La storia di S. Rita fu ricolma di eventi straordinari e uno di questi si mostrò nella sua infanzia.
La piccina, forse lasciata per qualche momento incustodita nella culla in campagna mentre i genitori lavoravano la terra, fu circondata da uno sciame di api. Questi insetti ricoprirono la piccola ma stranamente non la punsero. Un contadino, che nel contempo si era ferito alla mano con la falce e stava correndo a farsi medicare, si trovò a passare davanti al cestello dove era riposta Rita. Viste le api che ronzavano attorno alla bimba, prese a scacciarle ma, con grande stupore, a mano a mano che scuoteva le braccia per scacciarle, la ferita si rimarginava completamente.
La tradizione ci tramanda che Rita aveva una precoce vocazione religiosa e che un Angelo scendeva dal cielo a visitarLa quando si ritirava a pregare in un piccolo sottotetto.
S. RITA ACCETTA DI ESSERE SPOSA
Rita avrebbe desiderato farsi monaca tuttavia ancor giovanetta (circa a 13 anni) i genitori, oramai anziani, la promisero in sposa a Paolo Ferdinando Mancini, un uomo conosciuto per il suo carattere rissoso e brutale. S. Rita, abituata al dovere non oppose resistenza e andò in sposa al giovane ufficiale che comandava la guarnigione di Collegiacone, presumibilmente verso i 17-18 anni, cioè intorno al 1397-1398.
Dal matrimonio fra Rita e Paolo nacquero due figli gemelli maschi; Giangiacomo Antonio e Paolo Maria che ebbero tutto l'amore, la tenerezza e le cure dalla mamma. Rita riuscì con il suo tenero amore e tanta pazienza a trasformare il carattere del marito e a renderlo più docile.
La vita coniugale di S. Rita, dopo 18 anni, fu tragicamente spezzata con l'assassinio del marito, avvenuto in piena notte, presso la Torre di Collegiacone a qualche chilometro da Roccaporena mentre tornava a Cascia.
IL PERDONO
Rita fu molto afflitta per l'atrocità dell'avvenimento, cercò dunque rifugio e conforto nell'orazione con assidue e infuocate preghiere nel chiedere a Dio il perdono degli assassini di suo marito.
Contemporaneamente S. Rita intraprese un'azione per giungere alla pacificazione, a partire dai suoi figlioli, che sentivano come un dovere la vendetta per la morte del padre.
Rita si rese conto che le volontà dei figli non si piegavano al perdono, allora la Santa pregò il Signore offrendo la vita dei suoi figli, pur di non vederli macchiati di sangue. "Essi moriranno a meno di un anno dalla morte del padre"..
Quando S. Rita rimase sola, aveva poco più di 30 anni e senti rifiorire e maturare nel suo cuore il desiderio di seguire quella vocazione che da giovinetta aveva desiderato realizzare.
S. RITA DIVENTA MONACA
Rita chiese di entrare come monaca nel Monastero di S. Maria Maddalena, ma per ben tre volte non fu ammessa, in quanto vedova di un uomo assassinato.
La leggenda narra che S. Rita riuscì a superare tutti gli sbarramenti e le porte chiuse grazie all'intercessione di: S. Giovanni Battista, S. Agostino e S. Nicola da Tolentino che l'aiutarono a spiccare il volo dallo " Scoglio" fino al Convento di Cascia in un modo a Lei incomprensibile. Le monache convinte dal prodigio e dal suo sorriso, la accolsero fra di loro e qui Rita vi rimase per 40 anni immersa nella preghiera.
IL MIRACOLO SINGOLARE DELLA SPINA
Era il Venerdì Santo del 1432, S. Rita tornò in Convento profondamente turbata, dopo aver sentito un predicatore rievocare con ardore le sofferenze della morte di Gesù e rimase a pregare davanti al crocefisso in contemplazione. In uno slancio di amore S. Rita chiese a Gesù di condividere almeno in parte la Sue sofferenze. Avvenne allora il prodigio: S. Rita fu trafitta da una delle spine della corona di Gesù, che la colpi alla fronte. Fu uno spasimo senza fine. S. Rita portò in fronte la piaga per 15 anni come sigillo di amore.
VITA DI SOFFERENZA
Per Rita gli ultimi 15 anni furono di sofferenza senza tregua, la sua perseveranza nella preghiera la portava a trascorrere anche 15 giorni di seguito nella sua cella "senza parlare con nessuno se non con Dio", inoltre portava anche il cilicio che le procurava sofferenza, per di più sottoponeva il suo corpo a molte mortificazioni: dormiva per terra fino alla fine quando si ammalo e rimase inferma negli ultimi anni della sua vita.
IL PRODIGIO DELLA ROSA
A circa 5 mesi dal trapasso di Rita, un giorno di inverno con la temperatura rigida e un manto nevoso copriva ogni cosa, una parente le fece visita e nel congedarsi chiese alla Santa se desiderava qualche cosa, Rita rispose che avrebbe desiderato una rosa dal suo orto. Tornata a Roccaporena la parente si reco nell'orticello e grande fu la meraviglia quando vide una bellissima rosa sbocciata, la colse e la portò a Rita.
Cosi S. Rita divenne la Santa della "Spina" e la Santa della "Rosa".
S. Rita prima di chiudere gli occhi per sempre, ebbe la visione di Gesù e della Vergine Maria che la invitavano in Paradiso. Una sua consorella vide la sua anima salire al cielo accompagnata dagli Angeli e contemporaneamente le campane della chiesa si misero a suonare da sole, mentre un profumo soavissimo si spanse per tutto il Monastero e dalla sua camera si vide risplendere una luce luminosa come se vi fosse entrato il Sole. Era il 22 Maggio del 1447.
S. Rita da Cascia è stata beatificata ben 180 anni dopo il suo decesso e proclamata Santa a 453 anni dalla sua morte.
STORIA DI PADRE PIO
Padre Pio nacque il 25 maggio 1887, alle cinque del pomeriggio, nel quartiere Castello di Pietrelcina, a pochi chilometri da Benevento. Era il quarto dei sette figli di Grazio Forgione e Giuseppa Di Nunzio, poveri e semplici contadini che vivevano in una casetta di tre stanze con soffitto di canne ed avevano un lembo di terra in contrada Piana Romana. Al nuovo arrivato in casa Forgione venne dato il nome di Francesco, per antica devozione di mamma Peppa al Santo di Assisi.
Francesco trascorse l'infanzia e l'adolescenza impegnandosi in piccoli lavori agricoli e portando al pascolo le pecore. Dal direttore spirituale sappiamo che fin dalla tenera età di 5 anni ebbe le prime estasi e desiderò di consacrarsi totalmente a Dio. Subì anche le prime vessazioni diaboliche e iniziò ad infliggersi le prime penitenze corporali.
Il giovane Francesco fece gli studi ginnasiali privatamente, con i soldi che il padre inviava dall'America dove era emigrato come tanti suoi conterranei. All'età di 15 anni maturò la decisione di farsi frate nell'ordine dei minori cappuccini, confortato anche dal consiglio del parroco, don Salvatore Pannullo. Il 2 gennaio 1903, non ancora sedicenne, entrò nel convento dei Cappuccini a Morcone (Benevento) e il giorno 22 indossò il saio francescano col nome di fra' Pio. Nel 1904, dopo un anno di noviziato, pronunciò la sua consacrazione e all'inizio del 1907, nel convento di S.Elia a Pianisi (Campobasso), emise i voti di professione perpetua. Lo attendevano ora sei anni di studio per diventare sacerdote. Li trascorse in conventi diversi: S.Marco la Catola, Serracapriola, Montefusco e Benevento, dove ricevette gli ordini minori e il suddiaconato.
Fra' Pio si sottoponeva a severissime penitenze che, unite al forte impegno nello studio, furono la causa di una grave malattia diagnosticata come "broncoalveolite all'apice sinistro", che richiedeva vita all'aria aperta e riposo. Per tale motivo nel maggio 1909 gli fu concesso di trascorrere un periodo di convalescenza a Pietrelcina. Ma anche nel suo paese natale continuava a star male ed era tanto prostrato che gli fu accordato il permesso di essere ordinato sacerdote prima del compimento dei regolamentari 24 anni d'età. Così il 10 agosto 1910, nel Duomo di Benevento, ricevette la consacrazione sacerdotale e il giorno 14 celebrò la sua prima Messa a Pietrelcina.
Il giovane fra' Pio era continuamente perseguitato dagli attacchi dei demoni che egli chiamava "cosacci" e dovunque andava lo seguivano per tormentarlo. Se li portò anche nel convento di Venafro, dove era andato ad imparare Sacra Eloquenza. Qui Padre Pio venne assalito da febbri altissime e forti emicranie; per una ventina di giorni l'unica cosa che riuscì ad ingerire fu l'ostia consacrata.
A febbraio del 1916 venne mandato nel convento di Sant'Anna a Foggia, dopo anni di spola tra Pietrelcina e una decina di conventi alla ricerca di un posto benefico per la sua salute. Ma anche a Foggia Padre Pio seguitò a star male: vomito, sudorazioni improvvise, capogiri, febbri altissime. La notte, poi, dalla sua cella provenivano terrificanti rumori che si concludevano con un boato tale da scuotere i muri e terrorizzare i confratelli. A Padre Benedetto disse poi che era il diavolo il quale, non potendo vincere, per la rabbia "scattiava".
Per sfuggire all'afosa calura estiva di Foggia, Padre Pio a luglio del 1916 giunse per un breve soggiorno nel convento di San Giovanni Rotondo, piccolo paese sul versante meridionale del Gargano. Il clima si rivelò salutare ed egli vi resterà cinquantadue anni, fino alla morte.
La sera del 5 agosto 1918 subì la "trasverberazione" del cuore e nella mattina di venerdì 20 settembre, nel coretto della chiesa di Santa Maria delle Grazie, ricevette le stimmate che portò fino alla morte con sofferenza fisica e morale, in quanto quei segni esterni gli erano di "una confusione e di una umiliazione insostenibile" perché non si riteneva degno di tale similianza al Redentore. Altri doni carismatici ricevette da Dio per accreditare la sua missione di santificazione: la profezia, le bilocazioni, la scrutazione dei cuori, gli effluvi odorosi.
San Giovanni Rotondo divenne ben presto meta di pellegrinaggi di fedeli che accorrevano al convento per avere dal frate stigmatizzato aiuto, consiglio, guida spirituale. Per Padre Pio cominciò una frenetica attività: fino a sedici ore al giorno di confessioni, migliaia di lettere con richieste di grazie, visite continue di persone anche autorevoli.
Tra gli uomini di Chiesa si vennero a delineare due schieramenti: da una parte v'era chi guardava con simpatia ed ammirazione a Padre Pio; dall'altra parte, invece, si trovavano coloro che diffidavano del Cappuccino. Dal 1923 al 1933 Padre Pio fu sottoposto ad una serie di restrizioni personali e di inibizioni di attività. Venne privato dei direttori spirituali, gli fu ordinato di non confessare e di non celebrare la Messa in pubblico, di non rispondere alle lettere dei fedeli. Erano punizioni durissime che Padre Pio umilmente accettò, dichiarando:"Sono figlio dell'ubbidienza".
Ma a San Giovanni Rotondo i fedeli continuavano ad affluire sempre più numerosi e grazie alle loro offerte e alla carità di molti, il 19 maggio 1947, alla vigilia del 60° compleanno di Padre Pio, fu posta la prima pietra per la costruzione della "Casa Sollievo della Sofferenza" che rappresenta tuttora uno dei più moderni ed efficienti ospedali europei. Il 1° luglio 1959 venne consacrato il nuovo Santuario di S. Maria delle Grazie, eretto a fianco dell'antica e ormai insufficiente Chiesa del Convento.
Tanto sconfinato era l'amore di Padre Pio per la Madre celeste, che trascorse la vita stringendo fra le mani la corona del S. Rosario e raccomandando tale preghiera ai suoi figli spirituali quale arma infallibile contro il male.
Il 22 settembre 1968, giunto ormai all'età di 81 anni, al termine della celebrazione della S. Messa per la ricorrenza del cinquantenario del doloroso dono delle stimmate, venne colto da malore e durante la notte, alle ore 2.30 del 23 settembre, cessò di vivere.
STORIA DI SANT'ANDREA APOSTOLO
Tra gli apostoli è il primo che incontriamo nei Vangeli: il pescatore Andrea, nato a Bethsaida di Galilea, fratello di Simon Pietro. Il Vangelo di Giovanni (cap. 1) ce lo mostra con un amico mentre segue la predicazione del Battista; il quale, vedendo passare Gesù da lui battezzato il giorno prima, esclama: "Ecco l’agnello di Dio!". Parole che immediatamente spingono Andrea e il suo amico verso Gesù: lo raggiungono, gli parlano e Andrea corre poi a informare il fratello: "Abbiamo trovato il Messia!". Poco dopo, ecco pure Simone davanti a Gesù; il quale "fissando lo sguardo su di lui, disse: “Tu sei Simone, figlio di Giovanni: ti chiamerai Cefa”". Questa è la presentazione. Poi viene la chiamata. I due fratelli sono tornati al loro lavoro di pescatori sul “mare di Galilea”: ma lasciano tutto di colpo quando arriva Gesù e dice: "Seguitemi, vi farò pescatori di uomini" (Matteo 4,18-20).
Troviamo poi Andrea nel gruppetto – con Pietro, Giacomo e Giovanni – che sul monte degli Ulivi, “in disparte”, interroga Gesù sui segni degli ultimi tempi: e la risposta è nota come il “discorso escatologico” del Signore, che insegna come ci si deve preparare alla venuta del Figlio dell’Uomo "con grande potenza e gloria" (Marco 13). Infine, il nome di Andrea compare nel primo capitolo degli Atti con quelli degli altri apostoli diretti a Gerusalemme dopo l’Ascensione.
E poi la Scrittura non dice altro di lui, mentre ne parlano alcuni testi apocrifi, ossia non canonici. Uno di questi, del II secolo, pubblicato nel 1740 da L.A. Muratori, afferma che Andrea ha incoraggiato Giovanni a scrivere il suo Vangelo. E un testo copto contiene questa benedizione di Gesù ad Andrea: "Tu sarai una colonna di luce nel mio regno, in Gerusalemme, la mia città prediletta. Amen". Lo storico Eusebio di Cesarea (ca. 265-340) scrive che Andrea predica il Vangelo in Asia Minore e nella Russia meridionale. Poi, passato in Grecia, guida i cristiani di Patrasso. E qui subisce il martirio per crocifissione: appeso con funi a testa in giù, secondo una tradizione, a una croce in forma di X; quella detta poi “croce di Sant’Andrea”. Questo accade intorno all’anno 60, un 30 novembre.
Nel 357 i suoi resti vengono portati a Costantinopoli; ma il capo, tranne un frammento, resta a Patrasso. Nel 1206, durante l’occupazione di Costantinopoli (quarta crociata) il legato pontificio cardinale Capuano, di Amalfi, trasferisce quelle reliquie in Italia. E nel 1208 gli amalfitani le accolgono solennemente nella cripta del loro Duomo. Quando nel 1460 i Turchi invadono la Grecia, il capo dell’Apostolo viene portato da Patrasso a Roma, dove sarà custodito in San Pietro per cinque secoli. Ossia fino a quando il papa Paolo VI, nel 1964, farà restituire la reliquia alla Chiesa di Patrasso.
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STORIA DI SANT'ANTIMO
Le notizie sulla vita e sul martirio di S.Antimo sono contenute negli Acta S.Anthimi. Cheremone, consigliere in Asia del proconsole Piniano muore tragicamente invaso dai demoni, dopo aver sterminato i cristiani. Il timore di subire la stessa sorte invade Piniano, che si ammala gravemente. Faltonio Piniano, sposo di Anicia Lucina pronipote dell'imperatore Gallieno, fu inviato dagli imperatori Diocleziano e Massimiano come proconsole nell'Asia. Lucina chiese ad Antimo (che si trovava in carcere con Sisinnio, Dioclezio, Fiorenzo, Massimo, Basso e Fabio), di curare il marito. Antimo, previa catechesi, convinse il proconsole Piniano a convertirsi al cristianesimo. La preghiera dei cristiani ottenne la guarigione di Piniano, che chiese il battesimo. Piniano convertitosi liberò i cristiani prigionieri in Asia e li nascose nelle proprietà che aveva nella Sabina e nel Piceno. Nei pressi della città di Osimo (e quindi nel Piceno) trovarono il martirio i Santi Sisinnio, Dioclezio e Fiorenzo. Antimo era nascosto in Sabina, in una villa di Piniano lungo la via Salaria al XXII miglio. Un sacerdote del dio Silvano, invaso dal demonio, uccise con la spada numerose persone convenute per sacrificare alla divinità pagana. La folla chiese l'intervento di Antimo; questi scacciò via il demonio e fatto tornare in se il sacerdote del dio Silvano ne ottenne la conversione. L'esempio del sacerdote fu seguito da molte persone. La reazione dei convertiti fu quella di abbattere gli alberi del bosco sacro a Silvano e di distruggerne gli altari. La popolazione pagana si rivolse al governatore perché Antimo venga imprigionato e offra sacrifici al dio Silvano. Antimo rifiutò, venne quindi gettato nel Tevere con un sasso legato al collo. Attraverso un intervento soprannaturale, l'azione di un angelo, Antimo venne tratto in salvo. I pagani che lo rividero vivo, intento a pregare e a benedire, presi da stupore e da timore si convertirono. Una nuova presenza del governatore Prisco nella zona offrì, a chi era rimasto pagano, la possibilità di una seconda denuncia. Antimo fu nuovamente imprigionato e dopo tre giorni di patimenti venne decapitato. La sepoltura di Antimo divenne meta di pellegrinaggi perché vi si concedevano grazie. Antimo fu sepolto nei pressi di Cures, nell'odierna località di Montemaggiore (frazione di Montelibretti). Sul luogo di sepoltura di Antimo è esistita per molti secoli una chiesa. Ancora nel 1584 si presentava ampia, nobile, solenne, ma abbandonata, senza porta e con una casa a fianco del tutto rovinosa. La chiesa diruta ha continuato a sussistere per tutto il 1800 anche se ormai sfondata da tutte le parti e abbandonata al suo destino. Nel 1904 fu dato ordine di spianare completamente le rovine della chiesa, di interrare l'accesso alla catacomba e di coltivare il campo in maniera che non rimanesse nessun segno della chiesa e del cimitero di Sant'Antimo. Il corpo di Sant'Antimo al tempo di Carlo Magno fu traslato in Toscana, vicino a Chiusi. Fu papa Adriano I che concesse a Carlo Magno la licenza di trasferire il corpo di Sant'Antimo in località "Castelnuovo dell'Abbate" (Montalcino) dove si stava edificando una magnifica abbazia ancora oggi esistente. Il martirologio romano così dice per S.Antimo: Romae Via Salaria natalis Beati Anthimi presbyteri, qui post Virtutum et praedicationis insignia in persecutione Diocletiani in Tyberim precipitatus, et ab angelo ex inde ereptus, oratorio proprio restitutus est, deinde capite punitus victor migravit ad Coelos". I Santi Massimo, Basso e Fabio invece subirono il martirio a Forum Novum (l'odierna Vescovio). Anche Faltonio Piniano e Anicia Lucina sono Santi, per la precisione Santi confessori. [ Testo di Andrea Del Vescovo ] Sul martirio di san Antimo prete avvenuto nel 303 si ha la seguente narrazione: era stato incendiato il boschetto sacro a Silvano. Il Proconsole fece arrestare Antimo e in segno di riparazione voleva spingerlo a sacrificare agli dei. Al suo rifiuto inizarono le percosse e i supplizi. Nonostante ciò Antimo resistette e quindi per ordine dello stesso proconsole fu gettato nel Tevere con una pietra legata al collo. Un angelo, miracolosamente, lo liberò e lo sciolse dal sasso, facendolo uscire dalle acque del fiume sano e salvo. Antimo ritornò allora alla sua celletta, dove era solito ritirarsi a pregare. Molti soldati, che assistettero al miracolo, si convertirono al cristianesimo. Antimo fu allora nuovamente accusato e nuovamente trascinato davanti al proconsole e fu crudelmente e lungamente torturato, ma ancora una volta non riuscirono ad indurlo a sacrificare agli dei, fu perciò decapitato. Alcuni uomini pii, che erano stati convertiti dal santo, presero il suo corpo e lo seppellirono presso la via Salaria, nel luogo dove Antimo era solito raccogliersi a pregare. Sul luogo sorse in seguito una basilica, dove, per le preghiere e i meriti del martire, Dio concesse moltissime grazie ai devoti frequentatori.
NOVEMBRE MESE DI RICORDO PER I DEFUNTI Un’assenza che è presenza… Oggi la cultura vorrebbe emarginare la morte, mentre la tradizione cristiana vi riserva un intero mese, per pregare, meditare e ricordarci che la nostra vita non termina su questa terra… Non un giorno, il 2 novembre, ma tutto un mese è dedicato ai defunti. E’ un affluire nei cimiteri, sono ricordi più vivi accompagnati da preghiera e gratitudine. Sovente, nell’arco della nostra vita, ci interroghiamo sul senso della morte e del suo rapporto con la vita. E il pensiero si perde nelle riflessioni, nella meditazione, nei ricordi. Che cosa è la morte? Perché la morte? Che cosa è la vita eterna? Cosa rappresentano per noi i defunti e quale rapporto instauriamo con loro? Innanzitutto: la morte che per i non credenti costituisce semplicemente il termine di una esistenza oltre la quale non esiste che il nulla, per noi cristiani rappresenta una meta e un inizio. E’ l’interruzione della vita terrena con la separazione da tutto ciò che ci legava ad essa, e l’inizio di un’altra vita, quella eterna. “Ai tuoi fedeli, Signore, la vita non è tolta, ma trasformata” ci fa pregare la Chiesa (cf. Canone Messa dei defunti). Sarà una vita diversa, che prende avvio al momento della morte, come sostengono molti teologi tra cui Barth (cf. 1Cor 13). Quale immagine più eloquente e illuminante della morte di quella relativa alla nascita di un bambino? Quando, terminato il periodo della gestazione, egli deve liberarsi della placenta che lo aveva avvolto e protetto per mesi e separarsi dal grembo materno, viene catapultato nel nostro mondo. Inizia un nuovo cammino attraverso tappe di sviluppo e di crescita. Passa dall’essere dipendente “in toto” dalla madre ad avere una vita autonoma. Sarà neonato, fanciullo, adolescente, giovane, adulto, anziano; stabilirà e maturerà relazioni cognitive e affettive, si proietterà e sarà impegnato nel mondo del lavoro e nella costruzione della società. Due tempi di una stessa realtà… Chi non ha sperimentato nell’arco della sua vita l’esperienza della morte? Quante volte ci siamo ribellati ad essa, forse perché inconsciamente l’abbiamo considerata come uno sprofondare nel nulla o nell’ignoto, e forse perché non abbiamo accettato che venissero spezzati i vincoli di affetto e di amicizia che avevamo coltivato per anni. Ma quando l’abbiamo considerata come la vittoria dello spirito che si svincola dal corpo fisico, e abbiamo compreso che essa segna l’inizio di una nuova vita, quella spirituale che ci immerge in quella eterna, il sorriso è ritornato sulle nostre labbra, una nuova pace ha inondato il nostro cuore, e abbiamo iniziato a intessere una relazione diversa, più spirituale con le persone defunte. Nella “Dichiarazione sull’esistenza della vita eterna” del 1979, beato Giovanni Paolo II ricordava che l’anima è spirituale e quindi non morirà mai, e che con la morte corporale l’anima entra nell’eternità. “Gli uomini pii vivono beati nell’altra vita” aveva scritto Omero. E Shakespeare in uno dei suoi scritti ebbe a dire: “Raccomando la mia anima al mio Creatore, sperando e fermamente credendo che io sarò ammesso a partecipare alla vita immortale”. La vita eterna è una realtà da credere e sperare. “Coloro che non sperano nella vita futura sono morti anche per la vita presente” scrisse il grande scrittore Goethe. Essa ci attende; nessuno può venir meno al suo appuntamento. E sarà tanto più luminosa quanto più conosciamo e sperimentiamo il Cristo qui, nella vita terrena. La promessa di Gesù agli apostoli: “Vado a prepararvi un posto” è valida anche per noi, come è stata valida per quanti sono vissuti prima di noi. Vita presente e vita futura: due tempi e aspetti di una stessa realtà; se la prima si conclude con la morte, la seconda inizia da essa un nuovo percorso che ha il suo compimento nella beatificazione e glorificazione. Sperare e credere nella vita eterna costituisce un’ipoteca per il nostro futuro, allorché si spengono le luci della ribalta terrena. Chi chiude l’accesso della sua mente e del suo cuore ad essa, orienta la propria esistenza ai beni caduchi, al soddisfare unicamente gli istinti e gli interessi materiali, calpestando spesso i diritti e la dignità altrui. Chi vive credendo che oltre la morte ci attende una vita beata, promessa dallo stesso Cristo, orienta i suoi interessi e le sue attività al bene. Assenti o presenti? Il beato Giovanni Paolo Il, alla vigilia della sua morte ripeteva spesso: “Non piangete, sono alla vigilia di una grande festa. La vera vita non è questa terrena, la quale passa velocemente, ma è quella che c’è dopo la morte del corpo, poiché quella è eterna, non avrà mai fine”. E Santa Teresa di Lisieux, riferendosi alla morte che stava per sperimentare, ebbe a dire: “Entro nella vita...”. E poi soggiunse che in Cielo avrebbe passato il tempo a fare del bene sulla terra. Sin dall’antichità gli uomini hanno coltivato il culto dei defunti. Per essi hanno costruito tombe e cimiteri; in loro onore hanno dedicato monumenti e pagine poetiche, sia per esprimere la gratitudine per il bene ricevuto o da essi compiuto, e sia per non interrompere quel vincolo d’amore che li aveva legati in vita. Tuttavia anche chi afferma di non credere in una vita futura, chi si dichiara materialista e ateo, non dimentica i “suoi morti”, si affida a loro nei momenti di difficoltà, ne canta le glorie. Per noi cristiani che crediamo nella vita eterna, il ricordo dei defunti è accompagnato dalla fede nelle parole di Gesù: “Chi crede in me non morirà, ma avrà la vita eterna”; “Vado a prepararvi un posto”. Nasce da questa fede il bisogno della preghiera, la visita al cimitero, l’adornare di fiori la tomba delle persone care, la celebrazione eucaristica in loro suffragio. Il ricordo e il culto verso i defunti non può e non deve limitarsi al momento della morte o in occasione di un anniversario particolare, perché i vincoli esistiti durante questa vita non possono essere riposti in un dimenticatoio e neppure essere annullati. Certamente, quanto più questi vincoli sono stati profondi in vita, tanto più il ricordo è duraturo. E con il ricordo cresce la riconoscenza per il bene ricevuto, e il bisogno di pregare il Dio della vita perché le persone care possano godere sempre più intensamente e profondamente del gaudio eterno e possano continuare ad aiutarci. La gratitudine di coloro che abbiamo aiutato a raggiungere la felicità piena attraverso la nostra preghiera e le opere buone, si riverserà sulla nostra vita. E si tramuterà in una presenza che si esprime in luce, gioia, serenità, abbandono ai piani provvidenziali di Dio. Santa Teresa di Lisieux aveva promesso: “Passerò il mio tempo in cielo a fare del bene sulla terra”. Come lei, i nostri amici, parenti e benefattori, coloro che hanno condiviso con noi parte del cammino e delle esperienze, coloro che abbiamo beneficato e/o da cui siamo stati beneficati, non ci lasciano soli, soprattutto nei momenti di difficoltà. E spesso fanno sentire la loro presenza. Se li invochiamo, essi rispondono. Tra noi e loro si forma una catena di solidarietà. Più è intenso il ricordo, più è vero e disinteressato l’amore che ci lega a loro, maggiore è la percezione della loro presenza. Vincoli profondi… I vincoli di amicizia, di parentela e di affetto con le persone che sono vissute con noi non possono essere riposti in un dimenticatoio e neppure essere annullati allorché la morte ci sorprende e ci separa. Quanto più questi vincoli sono stati profondi in vita, tanto più il ricordo è vivo e duraturo. E con il ricordo cresce la riconoscenza per il bene ricevuto, e il bisogno di pregare il Dio della vita perché possano godere sempre più intensamente e profondamente del gaudio eterno e possano continuare ad intercedere per noi. Quanto grande, e spesso struggente, è il desiderio di rivedere le persone con le quali abbiamo condiviso la vita e il lavoro, dialogare con loro come quando vivevano con noi! Se ciò ci è precluso, se non sono visibili ai nostri occhi e non possiamo udirli con il nostro udito, la loro è una presenza vera. Possiamo affermare che è una assenza-presenza. Forse, è più presenza che assenza. |
RICORDO MIO PADRE COME UNA PERSONA LABORIOSA DEDITA ALLA FAMIGLIA E IN PARTICOLARE VERSO DI ME CHE MI HA DATO TANTO UNA PERSONA CHE A VOLTE NON MANGIAVA LUI PER FARCI STARE BENE A NOI FACEVA TUTTO PER NOI MIO PADRE E PER GLI ALTRI MIO PADRE AVEVA IL CORAGGIO DI TOGLIERSI LA GIACCA DI DOSSO PER AIUTARE IL PROSSIMO NON AVEVA VIZI NE ALTRO UNA PERSONA UMILE A SEMPRE LAVORARATO NON STAVA UN MINUTO FERMO SE UNO DI NOI STAVA MALE CORREVA A PIEDI FINO AD AMALFI 3 KM PER CHIAMARE UN MEDICO SE AVEVAMO UN PROBLEMA NON CI DORMIVI LA NOTTE QUESTO E TANTO ALTRO ERA PAPPACODA GIACOMO!!!!!!!!
ANGELA CECERE RICORDA I SUOI GENITORI GIUSEPPE E ASSUNTA
Nel mio cuore ci sarà sempre la presenza di mia madre che e morta quest'anno e nel cielo brilla la più stella di nome SANTILLO ASSUNTA mi manchi e ti voglio un mondo bene mamma.
Guardando il cielovedo tantissime stelle che brillano una di questa e mio padre Giuseppe Cecere che mi guarda dal cielo mi protege sempre mi manchi tantissimo papa e ti voglio un mondo di bene.
il 16 e 18 dicembre il compleanno di mio padre e mia madre ricordo che noi facevamo una grande festa e un grande pranzo mancate tantissimo vi voglio un mondo bene vi porto sempre del mio cuore.. angela